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Posted by on Feb 22, 2015 in Oikos | 0 comments

Relazione della signora Moro per il giorno del RICORDO

Relazione della signora Moro per il giorno del RICORDO

(relazione dell’incontro tenuto nella Sala Pollio il 14 febbraio 2015
10 febbraio 2015 : GIORNO DEL RICORDO

E’ dal 10 marzo 2004 che ogni anno gli italiani sono invitati a celebrare il «Giorno del Ricordo», al fine di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e delle più complesse vicende del confine orientale”. aaa

In questa giornata “sono previste iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici avvenimenti presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado. E’ altresì favorita, da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti, in modo da conservare la memoria di quelle vicende. Tali iniziative sono, inoltre, volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate, […] ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all’estero”.
Così detta la legge n. 92 del 2004; ma quanti enti ed istituzioni si sono preoccupati, in questi ultimi undici anni, di mettere in atto queste prescrizioni, soprattutto nelle scuole? Anche i testi scolastici di storia dedicano a quei lontani, tragici fatti pochissimo spazio, e non sempre sono sufficientemente informati.
Per me, nata e vissuta a Fiume nei primi diciannove anni della mia vita, ciò che avvenne a Fiume, a Pola e nell’intera Istria, a Zara e nella Dalmazia alla fine della seconda guerra mondiale segnò un totale cambiamento: chiuse una pagina della mia vita, la più bella, la più serena, la più spensierata, quella dei diciotto anni che si affacciano al mondo pieni di attese, di progetti, di speranze.
Non potrò mai dimenticare quel giorno, il 3 maggio 1945. Quella mattina, all’alba, entrarono a Fiume, scendendo dalle montagne che circondano la città, le truppe dei partigiani del maresciallo Tito, uno strano corteo di individui che indossavano divise lacere e piuttosto approssimative, portavano berretti militari con la stella rossa ed erano armati di fucili, pistole e mitra. Il corteo era preceduto da bandiere tricolori. Ma non era il nostro tricolore: quello che vedevamo era bianco, rosso e blu e portava al centro una grande stella rossa.
Allora non lo sapevamo, ma quella bandiera avrebbe sventolato negli anni futuri sulla nostra città, contro la nostra volontà, senza che nessuno avesse chiesto la nostra approvazione. Anche Trieste, Pola, l’Istria e Gorizia subirono la stessa sorte.

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Con questo atto di forza, che colse di sorpresa anche i comandi alleati, la Jugoslavia si appropriò di Fiume e di tutta la Venezia Giulia, un territorio che era divenuto italiano nel 1918, alla fine della prima guerra mondiale, e che era costato all’Italia la vita di migliaia di suoi figli, caduti dopo sanguinose battaglie nelle aspre trincee del Carso. Col Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947 fu salvata solo Trieste, che rimase italiana con un piccolissimo territorio circostante.
Allora io avevo compiuto da poco diciotto anni; frequentavo il Liceo-Ginnasio “Dante Alighieri” e mi preparavo a sostenere gli esami di maturità. Il periodo della guerra era stato molto difficile a Fiume, città di confine, sottoposta a bombardamenti quasi quotidiani, specialmente dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando l’intera Venezia Giulia era passata sotto il comando diretto dell’esercito tedesco e le autorità italiane erano state private di qualsiasi potere. Erano stati distrutti dalle bombe molti edifici, pubblici e privati, e i vari impianti industriali di cui era ricca la nostra città. Anche la mia scuola aveva subito gravi danni: molte aule erano inagibili e le varie classi dovevano alternarsi nei pochi ambienti rimasti intatti.
Alla ripresa delle lezioni non trovammo più il nostro vecchio preside, il prof. Silvino Gigante, una persona colta ed apprezzata in Italia e all’estero come finissimo traduttore di opere letterarie dall’ungherese, che ci aveva accolti fin dal primo anno del ginnasio inferiore e ci conosceva uno per uno. Al suo posto trovammo un giovane professore che, senza darci nessuna spiegazione, ci fece sapere che dal programma di filosofia per l’esame di maturità era stato eliminato Giovanni Gentile, perché fascista.
Ma ben più gravi mutamenti ci attendevano, mutamenti che incisero profondamente sulla vita degli abitanti della città. Fin dalle prime ore del loro arrivo, i partigiani avevano ucciso tutti i componenti del Comitato di Liberazione cittadino, che negli ultimi mesi di guerra si era costituito clandestinamente ed era formato dai rappresentanti di tutti i partiti, compreso quello comunista. Fu subito istituito un Tribunale del Popolo, che aveva il potere di stabilire chi fosse “nemico del popolo” e di effettuare arresti indiscriminati, senza possibilità di difesa da parte degli accusati e senza alcun processo. I parenti degli arrestati (almeno 500 solo in quei primi giorni di occupazione) passavano da una caserma e da un carcere all’altro alla ricerca di informazioni sui loro congiunti, ma inutilmente. Qualche volta, all’improvviso, gli arrestati tornavano a casa; ma, il più delle volte, sparivano nel nulla, senza lasciare alcuna traccia.
Solo dopo diversi mesi si cominciò a parlare delle foibe, quelle voragini presenti a centinaia nei terreni carsici (nel Salento sono chiamate “vore”) , che si inoltrano per chilometri nel sottosuolo. E’ lì che sono stati gettati i corpi di quelle povere persone scomparse dalle nostre case: allineati sul bordo di quei burroni, legati l’uno all’altro, venivano fucilati e fatti precipitare nel vuoto, alcuni ancora in vita. Erano uomini e donne, anche bambini di pochi anni, a volte intere famiglie, di tutte le condizioni sociali, italiani e slavi, civili e militari: carabinieri, poliziotti, guardie di finanza, segretari comunali, maestri e bidelli delle scuole italiane, medici e farmacisti, operai ed artigiani, piccoli possidenti, sacerdoti. Gli storici di quel periodo parlano di almeno 10.000 morti, alcuni usano addirittura la terribile frase “metri cubi di cadaveri”. E’ possibile che quei poveretti, eliminati con tanta ferocia, fossero tutti criminali fascisti, tali da meritare la condanna a morte, e a una morte così atroce?
In territorio italiano, dopo il Trattato di Pace, sono rimaste solamente due foibe, quella di Bassovizza, vicino a Trieste, e quella, più piccola, di Monrupino; solo queste sono state parzialmente esplorate. La maggior parte delle vittime delle foibe, dopo settant’anni da quei tristi eventi, giacciono ancora laggiù, senza un nome, senza una degna sepoltura, senza un fiore. Non dobbiamo dimenticarle, abbiamo anzi il dovere di conservarne la pietosa memoria. Perché “la memoria – come afferma lo scrittore triestino Claudio Magris – è carità e giustizia per le vittime del male e del dolore […] essa va ritrovata e custodita con amore e con rispetto”.
Mentre nella Venezia Giulia accadevano questi tragici fatti e nessuno alzava un dito per venirci a soccorrere, a Parigi i rappresentanti delle potenze vincitrici discutevano per compilare il cosiddetto Trattato di pace, che sarebbe stato portatore di ancor più gravi sacrifici per gli abitanti di quella povera regione. Infatti il Trattato del 10 febbraio 1947 colpì l’Italia con provvedimenti di particolare durezza: oltre a restituire tutte le sue colonie ed i territori occupati durante la guerra, l’Italia dovette cedere alla Jugoslavia la città di Fiume e il golfo del Quarnaro con le isole di Cherso e di Lussino, il territorio di Zara e le isole di Lagosta e Pelagosa sulle coste della Dalmazia, tutta l’Istria, gran parte del Carso triestino e goriziano (la città di Gorizia fu divisa a metà dal nuovo confine!) e l’alta valle dell’Isonzo. Complessivamente furono consegnati alla Jugoslavia ben 196 comuni italiani ed altri 11 ne furono sottratti dal successivo Trattato di Osimo del 1975.
Il Trattato di Parigi stabiliva, inoltre, all’art. 19, che “i cittadini italiani che, al 10 giugno 1940, erano domiciliati in territorio ceduto dall’Italia ad un altro stato […] ed i loro figli nati dopo quella data diverranno cittadini […] dello stato al quale il territorio viene ceduto […] e perderanno la loro cittadinanza italiana”. E più oltre così proseguiva: “Il governo dello stato al quale il territorio è trasferito dovrà disporre […] perché essi abbiano facoltà di optare per la cittadinanza italiana entro il termine di un anno”.
Le città di Fiume, Pola, Gorizia e le cittadine costiere dell’Istria erano abitate in netta prevalenza da italiani, mentre nella zona centrale della penisola istriana la popolazione era costituita in maggioranza da croati e da sloveni. Queste diverse nazionalità impararono, attraverso i secoli e sotto diverse dominazioni, a convivere pacificamente, integrandosi fra loro. Ma i nuovi occupanti fecero ben presto capire le loro vere intenzioni, basate non sul reciproco rispetto, ma sul desiderio di imporre con la forza le loro leggi.
La quasi totalità degli italiani decisero di rimanere tali e quindi optarono per la cittadinanza italiana. Ma si vide subito che questa decisione comportava serie conseguenze, come la perdita immediata del lavoro, l’esproprio delle abitazioni e perfino l’espulsione. Fummo così messi di fronte ad una scelta assai difficile: rimanere a Fiume e nell’Istria, diventando cittadini iugoslavi, oppure optare per conservare la cittadinanza italiana e quindi lasciare la nostra terra.
Trecentocinquantamila italiani decisero di partire, abbandonando le loro città, le loro case, i loro campi, il loro lavoro, tutto ciò che avevano costruito negli anni a prezzo di tanti sacrifici, con prospettive assai incerte per il loro futuro e, soprattutto, per quello dei loro figli. Fu una decisione dolorosa per tutti: c’erano molte famiglie miste (marito italiano e moglie croata, o viceversa), nonni anziani, spesso croati o sloveni, oppure malati e disabili che non erano in condizioni di viaggiare e non potevano essere lasciati soli… Tante situazioni, una più penosa dell’altra, di non facile soluzione.
In diverse località d’Italia erano stati allestiti numerosi campi per la raccolta dei profughi, sistemati per lo più in locali fatiscenti: caserme in disuso, vecchie scuole, depositi abbandonati, come il Silos di Trieste costruito ai tempi dell’impero austro-ungarico. Lì i profughi vissero anche per molti anni, in condizioni penose e difficili; dovettero sopportare immensi sacrifici ed umiliazioni e non sempre furono accolti con solidarietà dai fratelli italiani, che spesso li guardavano con diffidenza e sospetto, senza considerare che essi – come diceva Indro Montanelli – “erano italiani due volte, la prima volta per nascita e la seconda per scelta”!
Ma era soprattutto la mancanza di lavoro che angustiava gli esuli : molti di essi si videro costretti a prendere una decisione ancora più dura, quella, cioè, di abbandonare l’Italia e di cercare un lavoro all’estero. L’Europa, appena uscita anch’essa dalla guerra, poteva offrire ben poco, e i profughi giuliani dovettero rassegnarsi ad emigrare in terre più lontane e meno ospitali, come l’America, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda, dove accettarono qualsiasi lavoro, anche il più pesante e faticoso, allo scopo di riuscire a rifarsi una nuova vita, per loro e per i loro figli. Tuttavia, pur tra tante traversie, essi hanno cercato di rimanere sempre uniti, aiutandosi l’un l’altro, e hanno saputo conservare i ricordi e le tradizioni dei loro paesi d’origine: ovunque nel mondo hanno creato delle fiorenti comunità giuliano-dalmate, accettate e stimate da tutti. Lo scrittore triestino Claudio Magris in una sua intervista ha detto: “I profughi hanno dato un grande esempio di dignità, di apertura , di moderazione e tolleranza, di intelligenza, pagando essi soli una colpa che ricade su tutta l’Italia”.
Ma le vicende del dopoguerra hanno amaramente influito non solo su coloro che hanno dovuto abbandonare le loro terre d’origine, ma anche su tutti quelli che, per vari motivi, anche ideologici, avevano deciso di non partire, i cosiddetti “rimasti”. Pure per loro ci sono stati dolorosi mutamenti che hanno influito sull’ esistenza quotidiana: essi hanno visto le loro città riempirsi di nuovi abitanti che parlavano una lingua diversa e pretendevano che anch’essi la parlassero; hanno visto cambiare i nomi delle loro città, nomi che fino a settant’ anni fa erano riportati su tutte le carte geografiche del mondo e risalivano ai tempi dell’impero romano; hanno visto cancellare i circoli di cultura italiani, sopprimere giornali e riviste in lingua italiana; hanno visto chiudere a poco a poco tutte le scuole italiane, e hanno dovuto, contro i loro desideri e i loro diritti, mandare i figli nelle scuole e nelle università croate; hanno subito l’esproprio dei loro beni, case, terreni, negozi, imprese artigianali con tutte le attrezzature. Eppure sono riusciti a resistere e si deve ad essi, alla loro paziente e tenace opera quotidiana , se nelle terre giuliane si sono conservate, pur tra mille difficoltà, la lingua, la cultura e le tradizioni italiane.
Quelli, poi, che erano rimasti per motivi ideologici o erano giunti addirittura dall’Italia in una specie di “controesodo” (come i duemila operai dei cantieri di Monfalcone), sperando che i titini realizzassero i principi socialisti che sbandieravano, rimasero ben presto delusi e molti di loro, quando cercarono di trasferirsi in Italia, non ottennero il permesso di partire; anzi, in alcuni casi, finirono in carcere o in durissimi campi di concentramento (come il campo di Goli Otok, sulla costa dalmata), con l’accusa di essere “dissidenti” dal regime.

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Ho cercato di ricordare, ancora una volta, gli avvenimenti accaduti nella mia mai dimenticata Fiume, nella Venezia Giulia e nella Dalmazia dopo la fine della seconda guerra mondiale, anche se i ricordi, col passare degli anni, chissà perché, si fanno sempre più dolenti e vivi. Sono trascorsi tanti anni: molte delle ferite lasciate dalla guerra si sono rimarginate; i tempi sono cambiati, quasi tutti i protagonisti di quelle vicende non ci sono più e i loro figli e nipoti, dispersi in Italia e nel mondo, vivono oggi una vita normale, con i loro affetti e ricordi.
Molte cose sono cambiate anche sui confini orientali d’Italia: al posto della vecchia Jugoslavia di Tito, dopo un’altra sanguinosa guerra fratricida nei Balcani negli anni ’90, si sono costituite le due repubbliche di Croazia e di Slovenia, che negli ultimi anni sono state accolte nell’Unione Europea. Da allora i rapporti con l’Italia da parte di queste nazioni sembrano avviati verso un clima più disteso e disponibile: i cartelli stradali e turistici riportano ora i nomi bilingui delle località; sono stati riaperti gli storici licei italiani di Fiume, Pola e Capodistria e si stanno moltiplicando le iniziative per stabilire contatti tra quelle scuole e le corrispondenti scuole italiane (come il “Viaggio nella civiltà giuliana e dalmata”, organizzato ogni anno dal comune di Roma).
Nel 2010 i presidenti delle tre repubbliche italiana, slovena e croata si sono recati insieme alla foiba di Bassovizza per rendere un commosso omaggio alle vittime; in quell’occasione il presidente sloveno ha proposto la creazione di un comune “Parco della Pace” da Caporetto a Duino: su quella striscia di terra europea, infatti, durante la prima guerra mondiale, morirono quasi un milione di europei, tra cui moltissimi italiani al comando del generale Cadorna e molti slavi agli ordini del feldmaresciallo von Borojevic, di origine croata.
Negli ultimi tempi sono stati anche approfonditi gli studi sul confine orientale, sia da parte italiana che da parte croata e slovena, e si organizzano spesso convegni internazionali – come quello dello scorso anno a Brescia dal significativo titolo “Le vicende del confine orientale d’Italia e l’esodo dei giuliano- dalmati . Una memoria per la nuova Europa che sta sorgendo” – , in cui hanno lavorato fianco a fianco storici italiani, sloveni e croati, rappresentanti degli esuli e degli italiani rimasti nelle loro terre.
Ora è compito di tutti noi, e soprattutto dei nostri giovani, conservare la memoria degli anni passati, per non ricadere mai più negli errori che hanno causato così profondi danni. Ma, affinché questa memoria non sia uno sterile e vuoto esercizio, dobbiamo impegnarci – come ci esorta, ancora una volta, lo scrittore Claudio Magris – “a creare in noi una coscienza nuova, che rispetti tutti quelli che ci vivono accanto, che comprenda le necessità dei più deboli e che sia capace di instaurare tra gli uomini un dialogo veramente costruttivo, per risolvere in armonia e giustizia le eventuali divergenze che possono sorgere tra i popoli”.
Maria Marinari Moro